Le interminabili attese per la definizione dei giudizi, sono diventate ormai inevitabili per coloro che adicono all’autorità giudiziaria. Queste attese si traducono in vere e proprie lesioni del diritto ad un equo processo, diritto non sono riconosciuto a livello europeo ma, dal 2001, anche a livello nazionale. L’irragionevole durata del processo non determina solamente un disincentivo per i cittadini ad incardinare giudizi, ma anche una parziale giustizia, in quanto, laddove, l’affermazione di un diritto e la sua tutela giunge irragionevolmente in ritardo non può più parlarsi di reale e completa giustizia.
Imputare la responsabilità di tali lungaggini è molto difficile, sia perché l’utilizzo di termini dilatatori molto spesso è strumentalizzato dalle stesse parti difensive, sia perché sono attribuibili ad un sistema giudiziario ingolfato e carente di personale.
Il diritto ad una processo di durata ragionevole, ossia “a che la propria causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta”, è sancito nell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4.11.1950 (da tutti gli stati membri dell’allora Consiglio d’Europa) e ratificata in Italia nel 1955.
Tale Convenzione, enumerando il “diritto ad un equo processo” tra i diritti fondamentali della persona, ne riconosce un valore e dignità pari al diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza ecc.
Quale organo di garanzia venne istituita a Strasburgo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a cui sia gli Stati contraenti, sia le persone e i gruppi privati possono fare ricorso laddove ritengano violati i diritti sanciti nella Convenzione.
Il Parlamento italiano solo nel 2001, con la promulgazione della legge n. 89 del 24.03.01 la c.d. Legge Pinto, ha introdotto la possibilità di ricorrere al giudice italiano (nella specie la Corte d’appello) per ottenere un equa riparazione dei danni derivanti dalle lungaggini processuali. In verità, un primo passo in tal senso era stato già fatto due anni prima, con la legge costituzionale n. 2 del 1999 che modificava all’art.111 Cost., stabilendo che: “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo ed imparziale, la legge ne assicura la ragionevole durata”.
Nonostante, la Legge Pinto rimandi espressamente all’art. 6 della Convenzione e ai principi interpretativi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in ordine alla riparazione del danno da processo irragionevolmente lungo, il giudice italiano si è discostato più volte da tali principi (ad esempio: nel definire i parametri cronologici della durata di un processo, oppure nel determinare la somma da liquidarsi per ogni anno di ritardo 1.000-1.500-2.000 Euro, nel limitare la riparazione del danno morale, nel richiedere la prova del danno non patrimoniale, ecc.).
Tale circostanza, portò ad una sorta di emigrazione delle cause dalle Corti nazionali verso la Corte di Strasburgo. In virtù dell’articolo 35 della Convenzione, infatti, la Corte Europea può procedere all’esame di un ricorso tutte le volte in cui il cittadino abbia subito un pregiudizio e il ricorso non sia stato debitamente esaminato dal tribunale nazionale.
Per porre rimedio a questa situazione, è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione, la quale ha affermato il principio in base al quale il Giudice nazionale si deve conformare nel suo operato ai criteri ed ai principi elaborati negli anni dalla Corte di Strasburgo. Ciò in ossequio all’art. 2 della Legge Pinto che, espressamente richiama l’art. 6 della Convenzione.
I criteri elaborati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’individuazione del processo irragionevolmente lungo, sono ormai consolidati e possono essere elencarsi nel seguente modo:
La durata del processo è stata quantificata approssimativamente in 3 anni. Il computo della durata del processo nei procedimenti civili, decorre dal momento dell’incardinazione del giudizio (con atto di citazione o ricorso) e termina con qualsiasi provvedimento che definisce il giudizio, quindi, non solo una sentenza passata in giudicato, ma anche con una transazione stragiudiziale. Nei procedimenti penali, invece, decorre non dal semplice rinvio a giudizio, ma dal primo atto che ha ripercussioni significative sulla vita del privato (ad esempio, anche un interrogatorio per acquisire informazioni) e, termina solo con la sentenza di assoluzione o condanna.
Il comportamento processuale, che deve configurarsi in una condotta diligente delle parti, una volontà dilatoria, infatti, costituirebbe un concorso nella configurazione del danno.
La complessità del caso, ricorre tutte le volte in cui il caso trattato si presenta particolarmente complesso sia, ad esempio, per il numero degli imputati, ovvero per la copiosità del materiale probatorio da esaminare.
L’interesse in gioco, ovvero status e diritti che sono coinvolti.
Tutti questi elementi vanno valutati unitamente per stabilire se un processo sia o meno lungo ai fini della riparazione del danno.
Preme evidenziare che il procedimento di equa riparazione non costituisce un atto di sfiducia nei confronti del giudice e prescinde dall’accertamento di una qualsivoglia responsabilità in termini di colpa o dolo del magistrato nelle svolgimento della propria funzione.
In termini pratici, come ottenere una equa riparazione per il danno subito? chi può presentare ricorso? Nei confronti di chi?
Occorre presentare ricorso alla Corte d’Appello competente, in base all’art. 11 c.p.p. (ad esempio, per i giudizi di Roma è Perugia) entro 6 mesi dalla definizione del procedimento od anche nel corso di causa. Possono presentarlo sia le persone fisiche che le persone giuridiche e i cosiddetti enti collettivi, nei confronti del Ministro di Grazia e Giustizia per i danni da irragionevole durata del processo civile e penale, del Ministro della Difesa per il processo militare, del Ministro delle Finanze per i procedimenti tributari.
Con riferimento al danno riparabile, una prima giurisprudenza di legittimità riteneva che, il danno morale o non patrimoniale dovesse essere provato, ponendo in tal modo il danneggiato nella difficoltà di dimostrare lo stress e le sofferenze che non producono evidenti patologie invalidanti. Successivamente, la giurisprudenza chiarì che era sufficiente fornire la prova del danno morale anche per via presuntiva, considerando che la pendenza di un processo penale, civile o amministrativo, produce nell’uomo medio situazioni di stress, ansia, sofferenze psichiche appartenenti all’interiorità non esteriorizzate o esteriorizzabili.
Negli ultimi anni il giudice nazionale si è maggiormente conformato ai parametri standardizzati dalla Corte Europea dei diritti umani riconoscendo tra i 1.000 e 2.000 Euro per ogni anno di ritardo, a seconda delle situazioni giuridiche soggettive in gioco.
In ogni modo, vi è ancora una incisiva differenza tra i criteri di liquidazione del danno adottati dalla Corte Europea di Strasburgo e dalle Corti nazionali, in quanto la prima, accertata l’irragionevole durata del procedimento, procede a quantificare il danno tenendo conto dell’intera durata del processo, mentre, la seconda fa riferimento solamente al danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di durata del processo.
Alessandra Aimi